DOMENICA 22 GENNAIO 2012
Sicilia ieri, oggi ….. e domani?
Ricerca effettuata su vari siti da Martino Di Simo (2012)

Sono imbarazzato a scrivere qualche cosa della Sicilia e il perché è intuibile, essendo da poco ospite-residente in questa isola. In ogni suo angolo scopri cose nuove, la sua storia inizia fin dall’antichità e i popoli che l’hanno invasa e poi dominata, hanno lasciato le loro tracce.
Per questo motivo, le varie culture si sono stratificate, come mattoni di una casa, uno sopra l’altro, e hanno costituito un popolo quasi uguale ma con tante sfaccettature. Le interessanti grotte nei pressi di Palermo e Siracusa, testimoniano che questa parte d’isola era già abitata dall’età neolitica. Lo storico Tucidide riporta che la Sicilia orientale era abitata dai Siculi, al centro dai Sicani e l’occidente dagli Elimi.

La civiltà nicena portò un gran sviluppo soprattutto marittimo coinvolgendo anche le isole di Filicudi. Siamo intorno al 1400 a.c. quando i primi coloni fenici invasero la Sicilia, probabilmente incontrarono gli Elimi che avevano fatto di Segesta, Erice ed Entella i loro principali centri. Secondo le antiche leggende gli Elimi erano discendenti di Elimo, principe troiano, figlio di Anchise e fratellastro di Enea. I Sicani, probabilmente provenivano dalla Spagna e andarono ad occupare terre vicino agli Elimi entrando in contatto con la civiltà minoica. I fenici grazie ai maestosi cedri del Libano avevano la capacità di costruire delle navi che gli permisero la navigazione nel Mar Mediterraneo e di conseguenza con gli scambi commerciali divennero un popolo ricco e potente. La loro abilità commerciale si spinse fino ad inventarsi la leggenda dell’esistenza dei due mostri Scilla e Cariddi che si trovavano all’estremo dello Stretto di Messina e le navi che avessero valicato questo punto, sarebbero state affondate. Sicuramente un popolo intelligente e colto se dai loro 22 segni di scrittura, successivamente è nato il nostro alfabeto. Conclusosi il periodo preistorico, la Sicilia viene dominata da diverse etnie presenti lungo le coste del Mar Mediterraneo, la sua posizione geografica era un posto sicuro ed equidistante per l’allora difficile navigazione di un mare ancora quasi del tutto sconosciuto. Tra i primi popoli “stranieri”, che colonizzarono le coste siciliane, troviamo i greci arrivati intorno al 735 a.c. e dominano la Sicilia fino al 212 a.c.

Da questa data il potere passa ai Fenici fino al 241 a.c.. I greci, nel loro lungo periodo di occupazione, hanno lasciato notevolissime tracce ancora presenti sul territorio, in parte poi utilizzate dai romani durante il loro massimo splendore di occupazione ed estensione dell’Impero Romano. Una volta che l’Impero delle aquile perse il suo potere, si affacciarono i popoli nordici dei Vandali, siamo nel 440 d.c. Essendosi impadroniti di una parte della flotta navale romana d’Occidente, ormeggiata nel porto di Cartagine, nel 440 d.c., organizzarono incursioni in tutto il Mar Mediterraneo, soprattutto in Sicilia e Sardegna, i due granai dell’Impero d’Occidente, spingendosi fino alla Corsica e alle isole Baleari. Dalla lontanissima Svezia il popolo degli Ostrogoti giunse in Italia nel 476 e il barbaro Odoacre” depose l’ultimo imperatore romano Romolo Augusto, detto Augustolo e non osando proclamarsi imperatore, si incoronò re di un misto di popoli barbari.
Egli riscattò dai Vandali”con un tributo la Sicilia, che rimase dunque unita all’Italia e ne seguì le sorti. Il loro regno ebbe termine nel 555 e nel frattempo in Sicilia erano arrivati i Bizantini, una presenza lunga oltre 500 anni, fino alla caduta del’Impero di Costantinopoli da parte dei Turchi.

I bizantini proclamarono in Sicilia, la città di Siracusa, come capitale dal 663 al 669.
Alcuni monumenti Bizantini sono ancora visibili in provincia di Trapani a Castelvetrano e nei pressi di Castiglione di Sicilia (CT) dove si trova la cuba di Santa Domenica, forse la più importante presente in Sicilia, monumento nazionale dal 1909.
Anche nel siracusano sono presenti dei resti di monumenti. Con Tommaso lo Slavo, iniziò la decadenza dell’Impero Bizantino e la costituzione dei Thema anche la Sicilia cercò di affrancarsi da questo dominio. I musulmani, forse avevano già progettato un’invasione della Sicilia, preparando una flotta di 70 navi. Furono chiamati dal turmarca della flotta siculo-bizantina, Eufemio di Messina, che s’era impadronito del potere in Sicilia a scapito dei vari regnanti locali chiedendo aiuto degli Arabi nell’828 per tutelare il suo dominio sull’isola. Nei trecento anni della presenza turca, si accesero le prime battaglie tra il cristianesimo e l’islamismo. Nei primi anni del primo millennio (1860) Ruggero II, nominato re di Sicilia e duca di Puglia e di Calabria, nella cattedrale di Palermo durante la notte di Natale del 1130, estese il dominio normanno in Italia meridionale con la conquista del Ducato di Napoli (1137) costituendo il Regno di Sicilia, nato nel 1130 e comprendente tutta l’Italia meridionale. Sopravvisse per ben sette secoli, fino al 1860, quando venne annesso al Regno di Sardegna.
Prima di arrivare a questa data in Sicilia si ebbero altre importanti dinastie di popoli provenienti dal nord Europa che, per matrimoni politici, si trovarono a dominare le popolazioni siciliane. Nel 1194, con la morte di Guglielmo III, nell’isola aveva inizio la nuova dinastia degli Svevi che con Federico II,

figlio di Costanza I raggiunse il massimo dello splendore. Palermo e la corte divennero il centro dell’Impero, comprendente le terre della Puglia e dell’Italia meridionale.
A Palermo nacque la Scuola poetica siciliana con la prima poesia italiana; (allora si scriveva tutto in latino) e politicamente il sovrano chiamato “Stupor mundi” (meraviglia delle genti) anticipò “la figura del principe rinascimentale”, anche con le cosiddette “Costituzioni Melfitane”.
Federico II lasciò una grande traccia della sua esistenza, il suo regno fu principalmente caratterizzato da una forte attività legislativa e di innovazione tecnologica e culturale, volte ad unificare le terre ed i popoli, fortemente contrastata dalla Chiesa. Egli stesso apprezzabile letterato, fu convinto protettore di artisti e studiosi. La sua corte fu luogo di incontro fra le culture greche, latine, arabe ed ebraiche. Con il suo regno ebbe inizio l’uso della lingua “italiana” abbandonando poco a poco quella latina in uso alle poche persone che avevano frequentato gli studi. Il Papa che aveva da sempre considerato la Sicilia come un proprio regno, concetto osteggiato da Federico II, salvo il breve periodo degli angioini con a capo Carlo d’Angiò. Questi per sottomettere la Sicilia pose in stato di assedio la città di Messina che resistette per un lungo periodo. Anche i catanesi andarono in soccorso della città dello stretto per motivi economici dovuto al suo porto e al traffico commerciale e dopo 18 anni ebbe fine il loro regno a favore degli aragonesi. Nel frattempo i siciliani avevano offerto la corona di Sicilia a Pietro III d’Aragona, dando origine nel 1282

ai moti meglio conosciuti come Vespri Siciliani che posero fine al dominio dell’isola da parte della dinastia francese. Appena scoppiò la rivolta in Sicilia, la flotta aragonese era già a Palermo e l’occupazione della città da parte di Pietro dava inizio alla dominazione spagnola degli Aragonesi in Sicilia. Fu costituito il primo parlamento che limitò molto il potere dei sovrani e questo si doveva riunire, almeno una volta l’anno, nel giorno di “Tutti i Santi”. Nel 1302 si firmò la pace di Caltabellotta, che divideva il meridione italiano in regno di Trinacria (solo l’isola), affidato a Federico ed Eleonora d’Angiò (figlia di Carlo II), e quello di Sicilia (la penisola), guidato da Carlo. Alla morte di Ferdinando II di Aragona e di Isabella di Castiglia, la Sicilia e il regno di Napoli furono incorporati nella nuova corona di Spagna, che venne ereditata dal giovane nipote Carlo V. Il Vice-regno Sicilia iniziò il23 gennaio 1516, con l’ascesa al trono di Spagna di Carlo V, e si concluse il 10 giugno 1713, che sancì il passaggio dell’isola da Filippo V a Vittorio Amedeo II di Savoia. La presenza dei piemontesi in Sicilia durò appena sette anni e si concluse nel 1720, quando Carlo VI invase l’isola e ne prese possesso cedendo in cambio la Sardegna.
I Borboni

La Storia della Sicilia borbonica iniziò nel 173, allorché Carlo di Borbone, mosse alla conquista del Regno di Sicilia sottraendolo alla dominazione austriaca e diventandone Re con il titolo di Carlo III. Dopo il Congresso di Vienna del 1815, con la reintegrazione dei monarchi europei sui troni che avevano perduto durante l’epoca napoleonica, il re Ferdinando I (già Ferdinando IV di Napoli e Ferdinando III di Sicilia) si fece restituire il Regno di Napoli che aveva perduto nel 1806 e, l’8 dicembre 1816, lo unì a quello siciliano creando così il Regno delle Due Sicilie. La costituzione della nuova monarchia liberò la Sicilia dalla condizione di vice regno. Nel 1735, l’isola ritornò ad essere uno stato indipendente, sebbene di fatto, fosse unita a Napoli. Dopo i motti del 1820 e del 1848 con notevoli lotte e spargimento di sangue, i Siciliani culleranno dentro un odio verso i Borboni, rei di aver cancellato l’antico Regno di Sicilia (il più vecchio di tutta l’Italia prima dell’Unità d’Italia), per farlo diventare una provincia del Regno di Napoli, qualche anno dopo, infatti, i siciliani appoggiarono i piemontesi. Nonostante queste continue lotte per l’indipendenza fomentate anche dalla massoneria palermitana, negli anni del Regno delle Due Sicilie, la Sicilia conobbe un grande sviluppo economico e industriale, diventando una regione ricca. Durante l’Exposition Universelle de la science di Parigi nel 1856, il Regno delle Due Sicilie ottenne diversi riconoscimenti sia in campo agricolo, sia in quello industriale.

I Borboni avevano costruito una rete di comunicazioni stradali che permettevano il trasporto delle merci ai porti di Catania, Riposto e Messina, questi erano fra i più attivi del Mediterraneo. Questo fece fiorire il commercio in particolare dello zolfo, del sale, dei marmi, degli agrumi, del grano (la Sicilia, sin dal tempo degli antichi Romani, era il “granaio d’Europa). Inoltre, l’emigrazione in Sicilia, come del resto nel meridione continentale, era un fenomeno pressoché assente. Secondo lo studioso Francesco Nitti, il Banco duo siciliano aveva un patrimonio di 443,2 milioni di lire oro, equivalente a due terzi dell’oro e della ricchezza di tutta la penisola. Le ferrovie in Italia nacquero nel Regno delle Due Sicilie, prima ancora dell’unificazione dei singoli stati di cui era composta la penisola. Sui vaporetti Lombardo e Piemonte salpati dallo scoglio di Quarto partiva la spedizione dei Mille comandata da Giuseppe Garibaldi, era il 5 maggio 1860. Le navi approdano al porto di Marsala l’11 maggio e non incontrando alcuna resistenza borbonica, si dirigono verso Salemi. Il 14 maggio dello stesso anno si proclama dittatore della cittadina, in nome di Vittorio Emanuele II di Savoia. Il giorno successivo le Mille camice Rosse di Garibaldi furono affiancate da 500 picciotti, galeotti ricercati dai borbonici e nella battaglia di Calatafimi sconfissero le truppe borboniche. Nel contempo la città di Palermo era insorta e fu gioco facile conquistarla. Il 20 luglio i Garibaldini sconfiggono definitivamente i Borboni nella battaglia di Milazzo e, nei giorni successivi, ottengono la resa di Messina, avendo così il passaggio aperto per la definitiva conquista del Regno delle Due Sicilie nel continente.

La Sicilia invece è stata conquistata per intero ed è pronta per l’annessione al Piemonte. Siamo al 21 ottobre 1860, il Regno delle Due Sicilie è stato totalmente conquistato e in quel giorno si svolge il plebiscito per decidere l’annessione al Piemonte. In Sicilia, su 2.232.000 abitanti, gli iscritti alle liste elettorali erano circa 575.000. Si presentarono a votare in 432.720 (il 75,2 % degli aventi diritto), di cui 432.053 si dichiararono favorevoli e 667 contrari. Il basso numero di votanti rispetto agli abitanti, è dovuto alle leggi elettorali in vigore a quell’epoca; le donne non potevano votare e gli uomini dovevano avere una certa istruzione e soprattutto possedere una rendita cospicua. Fin dall’inizio sorsero dei dubbi sui risultati del plebiscito e alla luce dei documenti forse non c’è stato quel largo consenso sbandierato a quei giorni. Al momento dell’occupazione “dittatoriale” della Sicilia da parte di Garibaldi, il generale aveva promesso alle classi più povere, braccianti e contadini un ampio appannaggio di terre feudali e della chiesa, se lo avessero aiutato ad unificare l’Italia. Ben presto capirono che erano stati ancora una volta ingannati e che la promessa riforma agraria non ci sarebbe stata. Il Conte Camillo Benso di Cavour, sempre un po’ defilato verso questa impresa, aveva fretta di definire l’atto di annessione, temeva un ritorno dei Borboni e dei suoi alleati. Disconoscendo le promesse fatte da Garibaldi, estese alla regione appena annesse, le leggi e i regolamenti in vigore nel Regno di Sardegna. Non tenne conto del fatto che la Sicilia godesse già di leggi speciali e di una certa forma di autonomia sotto i Borboni, queste erano state ottenute a seguito di precedenti rivolte popolari, trascurando anche le spinte autonomistiche che la Sicilia aveva sempre manifestato nei confronti dei poteri centrali succedutisi negli anni. Tutto questo portò nel popolo siciliano una forte forma di ostilità verso i “piemontesi” aggravata anche dall’invio di funzionari e amministratori del nord Italia in Sicilia, motivando questa operazione per la troppa corruzione e clientelismo riscontrata. Furono introdotte nuove pesanti imposte come quella sul sale, sul macinato che andava a colpire i prodotti basilari per l’alimentazione delle classi più povere come il pane e la pasta, e venne introdotto il servizio militare obbligatorio portato a sei anni. Questo voleva dire togliere braccia giovani dal lavoro dei campi, unica forma di sostentamento per i già poveri abitanti della Trinacria. I disertori per evitare il militare si diedero alla macchia andando ad incrementare le file della malavita. L’incapacità dei “piemontesi” di gestire il territorio siciliano mette in risalto la connivenza di questi con la criminalità organizzata la “mafia” che secondo alcuni affonda le sue radici già al tempo dei romani per la gestione del “granaio d’Italia” come veniva definita la Sicilia. Idirigenti nordici ben presto capirono che dovevano assoggettarsi alla volontà dei capi siciliani unici a poter gestire situazioni che ogni giorno diventavano sempre più difficili da controllare. Nel 1868, la parola “Mafia” veniva definita non come criminalità organizzata, ma precisamente ad un atteggiamento arrogante, spocchioso, insolente. È forse questa l’origine della sfiducia verso lo Stato, che appare lontano e vessatorio. Nel 1863 furono emanate le leggi marziali e sotto il generale Covone furono fucilati e torturati moltissimi siciliani, contando 2500 morti e la condanna di quasi tremila persone. Dopo la delusione per l’annessione della Sicilia, anziché di un’autonomia federalista, come si sperava ci fu nel 1866, a Palermo l’ennesima rivolta, la Rivolta del sette e mezzo, in conseguenza di vendite irregolari, che avevano fruttato oltre 600 milioni di lire e che furono utilizzate, come annunciò pubblicamente il 16 marzo 1876 il primo ministro Marco Minghetti, per pareggiare il bilancio dello Stato sabaudo.
Le proprietà ecclesiastiche vendute davano lavoro a migliaia di contadini, i quali persero la loro unica fonte di reddito. La rivolta venne sedata dalle truppe del generale Raffaele Cadorna, con i soliti mezzi sbrigativi. In uno scritto del 1868 Garibaldi scrisse a Adelaide Cairoli: “Non rifarei la via del sud, temendo di essere preso a sassate…” Egli aveva promesso la terra ai contadini ma quanto promesso non era poi stato mantenuto.
DOPO L’UNITA’ D’ITALIA

Gli investimenti inglesi dei Withaker, dei Woodhouse, degli Ingham e di altri avevano stimolato un certo fervore di ripresa economica. Nelle aree del trapanesesi erano sviluppati i settori vinicoli e agroalimentari e, nella Sicilia centrale, quello del commercio dello zolfo. Neglianni ’40 del XIX secolo, gli Ingham e i Florio avevano costituito una società per la produzione di derivati dello zolfo e una per i battelli a vapore siciliani: era il 1853 quando il Piroscafo “Sicilia” partiva per gli Stati Uniti d’America.

Le imprese Ingham importavano velluti e tessuti stampati a Leeds, in società con gli Smithson di Messina, ed estendevano la loro attività al commercio dell’olio, della liquirizia e degli agrumi. Dato che nel XIX secolo la Sicilia era dotata solo di Banchi pubblici di deposito che non esercitavano il credito produttivo, era importante l’attività bancaria degli Ingham, dei Gibbs e di altri uomini di affari inglesi, che concedevano crediti agli altri mercanti, agli aristocratici siciliani ed alla borghesia emergente. Le esportazioni di vino della provincia di Trapani giungeva a Boston, New York Filadelfia, Baltimora e New Orleans, Brasile, in Australia e persino a Sumatra. Attraverso la Casa di Commercio di Palermo degli Ingham, si realizzava un vasto giro di affari per la fornitura di sommacco (un arbusto che cresce spontaneo nell’Europa occidentale, il “sommacco dei conciatori “, ricco di tannino) e di zolfo. Il Regno delle due Sicilienon aveva un elevato debito pubblico al momento della sua caduta, anche a causa della bassa quantità di investimenti in opere di modernizzazione; al contrario, il Regno di Sardegna ne aveva uno molto elevato anche a causa delle guerre sostenute contro gli austriaci. In seguito all’Unità d’Italia venne unificato anche il debito, facendo gravare anche sui contribuenti meridionali gli investimenti effettuati in Piemonte nel corso degli anni ’50 del XIX secolo. I fondi del Banco delle Due Sicilie, che era la Banca nazionale del regno borbonico (443 milioni di Lire oro, all’epoca corrispondente al 65,7 del patrimonio di tutti gli Stati italiani messi insieme) vennero incamerati dal nuovo Stato italiano, concorrendo a costituire il capitale liquido nazionale nella misura di 668 milioni di Lire oro. L’istituto fu poi scisso in Banco di Napoli e Banco di Sicilia, partendo con evidente perdita iniziale di competitività nei confronti delle imprese bancarie nazionali. Ad Unità realizzata, con le politiche liberiste del nuovo Regno d’Italia, a cui erano state estese le metodologie di governo proprie del vecchio Stato sabaudo, entrarono in crisi i principali settori produttivi delle regioni meridionali e della Sicilia, che perse i mercati tradizionali non reggendo più la concorrenza inglese e francese.
La fiscalità, divenuta più gravosa rispetto a quella borbonica, finiva così col finanziare gli investimenti al nord Italia. Sulle spalle dei siciliani, abituati ad unica tassa sul reddito, che copriva tutte le spese pubbliche ed anche locali, si venivano a caricare le nuove tasse comunali, le nuove tasse provinciali, il “focatico” (che essendo una tassa di famiglia colpiva duramente quelle numerose), la tassa sul macinato(che affamava proprio i più poveri, quelli che, cercando di risparmiare macinando il proprio esiguo raccolto, incorrevano nella famelica imposta), la nuova tassa di successione ed altre cosiddette addizionali. Il nuovo Stato, peraltro, era ancor più restio dei Borboni ad investire in Sicilia: ad esempio, dal 1862 al 1896 vennero investiti per opere idrauliche al nord Italia 450.000.000 contro soli 1.300.000 in Sicilia. Mentre nel resto d’Italia si moltiplicavano le linee ferroviarie, la Sicilia ebbe la sua prima, brevissima, Palermo Bagheria, solo nel 1863. La politica liberista dei governi unitari fu quella che aggravò maggiormente la situazione economica della Sicilia, ridotta così a colonia del Piemonte. Con la politica del libero scambio venne disincentivata la produzione della seta siciliana e del tessile locale, troppo frammentati, a vantaggio della grossa impresa del nord Italia e così avvenne anche per la locale industria alimentare; perfino i settori dell’industria pesante decaddero per mancanza di commesse e fondi. Se ne avvantaggiava soltanto la produzione del grano, del vino e degli agrumi, che venivano esportati durante la guerra di secessione americana. Anche questo durò soltanto fino al 1887, quando il cambiamento della strategia del governo italiano, da liberista a protezionista, e con la guerra doganale finì con l’assestare il colpo di grazia all’economia oramai essenzialmente agricola della Sicilia, privandola dei suoi mercati. Furono anni in cui avvenne un progressivo spopolamento, per fame, delle campagne. È proprio in questa serie di fattori che si individua da più parti il sorgere della mai più risolta questione meridionale. Le città relativamente più ricche, soprattutto quelle della costa orientale, con l’afflusso costante di gente in cerca di lavoro proveniente dall’interno, videro incrementare la loro popolazione e con essa i loro problemi sociali. La popolazione di Catania, che nel 1861 era di 68.810 abitanti, nel 1880 aveva già superato le 90.000 unità. In quest’ultima città erano avvenuti consistenti investimenti a partire dagli anni’70 del XIX secolo nel settore industriale della raffinazione dello zolfo, che si avvantaggiava della presenza del porto per la sua commercializzazione. Iniziava anche lo sviluppo delle ferrovie a supporto della stessa, (infatti, la stazione della Società per le Strade Ferrate della Sicilia venne costruita nella stessa zona delle raffinerie) e il 3 gennaio 1867 veniva aperto il tronco ferroviario Giardini Catania della ferrovia Catania Messina, il cui primo tratto era stato inaugurato l’anno prima. L’attività della Camera consultiva commerciale di Catania e la malaria, uniti alle spaventose e disumane condizioni di lavoro nelle zolfare, disseminate in tutte le province medio-orientali della Sicilia, e all’estrema miseria dei villaggi di pescatori delle zone costiere, fecero sì che il governo nazionale, a partire dal 1882, incentivasse l’emigrazione verso il >nord America, soprattutto verso gli Stati Uniti e verso il Brasile e l’Argentina nel sud America. Le statistiche affermano che tra il 1871 e il 1921 quasi un milione di siciliani abbiano lasciato l’isola. Gli ultimi decenni del XIX secolo vedevano la regione ancora priva di infrastrutture viarie e ferroviarie efficienti. La compagnia ferroviaria Vittorio Emanuele, concessionaria per le costruzioni e l’esercizio ferroviario nell’isola, era in forte ritardo sul programma, tanto che dovette intervenire direttamente lo Stato per la prosecuzione di molti lavori. Le linee ferroviarie realizzate, più che per collegare i centri urbani, erano realizzate spesso con un lungo percorso che teneva conto solo degli interessi commerciali degli investitori, spesso stranieri; così per andare da Palermo a Messina si doveva passare da Girgenti e Catania. La linea Palermo-Trapani era funzionante dal 5 giugno 1881, con i suoi 195 km, ma passando per Mazara del Vallo e Marsala, si faceva quasi il doppio del percorso. Ancora nel 1885 questa linea rappresentava un terzo di tutta la rete sicula; solo nel 1937 Trapani venne raggiunta direttamente. Alla lunga, tutto il sistema ferroviario risultò essere stato progettato e realizzato solo in funzione del trasporto ai porti d’imbarco dello zolfo, dei vini e degli agrumi, con effetti per la mobilità e per lo sviluppo che perdurano fino ad oggi. In più, per scopi clientelari, i percorsi venivano allungati o deviati per raggiungere il fondo o la tenuta di Baroni e latifondisti. Lo sviluppo del commercio dei filati a Catania attirava immigrati da tutta la provincia; oltre 20.000 tessitori ormai lavoravano nelle filande del capoluogo, e il Banco di Sicilia vi aprì la sua prima filiale. Un rapporto del 1887 di Gentile Cusa registra ciò, evidenziando l’assenza di emigrazione verso l’estero dal catanese, a differenza del resto della Sicilia. Verso la fine del XIX secolo, anche grazie all’apporto di capitale straniero e ai finanziamenti delle banche si svilupparono, nel sud della Sicilia e a Catania, raffinerie di zolfo e industrie chimiche ad esso collegate, attività molitorie, come i grandi Mulini Prinzi di Catania, che importavano grano ed esportavano farine; il cotonificio De Feo che impiegava oltre 480 addetti e nel 1897 produceva 1500 kg di filati al giorno; estesa era anche la produzione di mobili e di carrozze. La fine del secolo vide anche la costruzione della Ferrovia Circumetnea, che trasportava merci e viaggiatori dalle zone attorno all’Etna verso Catania e il suo porto, contribuendo all’export dei vini etnei tramite il porto di Riposto. Vennero anche approntati progetti di linee tranviarie a servizio delle zone minerarie, come la tranvia a vapore Raddusa Scalo, Assoro Scalo, Sant’Agostino e la Porto Empedocle zolfare Lucia. La produzione del “fiore di zolfo”, cioè lo zolfo raffinato, ebbe il suo massimo nel 1899, quando la produzione siciliana raggiunse l’8/10 di quella mondiale, grazie alle estrazioni massicce condotte nella Sicilia interna, soprattutto nelle grandi miniere dei bacini di Lercara, del nisseno e dell’agrigentino, di Floristella e di Grottacalda e delle altre miniere dell’ennese. Non era comunque ricchezza per tutti: la massima parte dei guadagni andava ai proprietari e agli investitori della “Anglo-Sicilian Sulphur Co.”

mentre la grande massa di “surfarara”, donne e “carusi” versava in uno stato di miseria e sfruttamento ai limiti della schiavitù. Alla fine del secolo XIX infatti, erano attive oltre 700 miniere che impiegavano una forza lavoro di oltre 30.000 addetti le cui condizioni di lavoro tuttavia rimanevano al limite del disumano. In questo clima si svilupparono i Fasci, che vennero repressi duramente dal governo di Francesco Crispi. Gli anni di fine secolo videro la nascita e lo sviluppo anche in Sicilia delle prime organizzazioni sindacali e l’inizio di scioperi per ottenere più umane condizioni di lavoro. Proprio gli zolfatari, più di tutti, parteciparono alla costituzione dei Fasci dei lavoratori: nel maggio 1891 si costituì il Fascio di Catania, nell’ottobre 1893 a Grotte, paese minerario in provincia di Agrigento, si tenne il congresso minerario. Al congresso parteciparono 1.500 fra operai e piccoli produttori. Gli zolfatari chiedevano di elevare per legge a 14 anni l’età minima dei “carusi” di miniera sfruttati fin da allora come schiavi, la diminuzione dell’orario di lavoro (che era praticamente dall’alba al tramonto) e il salario minimo. I piccoli produttori chiedevano provvedimenti che li affrancassero dallo sfruttamento dei pochi grossi proprietari, che controllavano il mercato di ammasso ricavandone, loro, tutto il profitto. I Fasci tuttavia vennero sciolti d’autorità dal governo Crispi all’inizio del 1894, dopo che, negli scontri con l’esercito, erano morti oltre un centinaio di dimostranti in un solo anno.

Nel 1901 le unità lavorative raggiunsero il livello massimo di trentanovemila con 540.000 tonnellate di minerale di zolfo estratto.
« I moti dei Fasci sono per noi come una propaggine del moto del 1860, inteso come “rivoluzione incompiuta”». (Mario Rapisardi) All’inizio del secolo XX, la Sicilia si affacciava con grave carenza di infrastrutture, la maggior parte della rete ferroviaria interna venne, infatti, realizzata a partire dalla statalizzazione delle ferrovie dopo il 1905 e terminata alla soglia degli anni ’30 quando il settore minerario era già in crisi profonda. Le origini di un movimento indipendentista moderno in Sicilia sono invece da ricercare nelle rivolte separatiste del 1820 e nella Rivoluzione indipendentista siciliana del 1848. La data di nascita di un sentimento indipendentista spontaneo (nell’epoca contemporanea), all’interno dello Stato italiano, può essere considerata il 16 settembre 1866, in cui il popolo siciliano si ribellò, in maniera più o meno violenta, alla dominazione del neonato Regno d’Italia. Quella rivolta fu chiamata del “sette e mezzo”, quanti furono i giorni che durò. La ribellione infiammò tutta Palermo, la quasi totalità delle città siciliane e comprendeva molte fazioni politiche nate durante il Risorgimento (repubblicani, filo-clericali, filo-borbonici). Tale rivolta fu sedata violentemente dall’Esercito Italiano e ogni intento di ribellione in nome di una nazione siciliana fu continuamente represso fino alla quasi totale scomparsa del movimento. Gli sbarchi anglo-americani, nel luglio del 1943, provocarono danni notevoli e solo lentamente la Sicilia si risollevò. Il generale britannico Harold Alexander, che nella sua veste di comandante supremo dell’armata era anche governatore militare delle zone occupate, ma il vero responsabile era il colonnello Charles Poletti, capo dell’Ufficio Affari civili dell’AMGOT. Con lo sbarco degli Alleati assunse nuovo vigore il separatismo e si costituirono il MIS (guidato dalla figura carismatica di Andrea Finocchiaro Aprile), che alla fine della Seconda guerra mondiale vantava più di cinquecentomila iscritti, l’E.V.I.S. il suo braccio militare, (capeggiato prima da Canepa e poi da Giuliano e altri movimenti minori. Nel febbraio 1944 gli Alleati riconsegnarono l’isola al governo italiano del Regno del Sud, che nominò un Alto commissario. Intanto, però, riprendeva forza l’antica tendenza all’autonomia, che nel secolo scorso aveva spinto i siciliani a chiedere il distacco dall’Italia. Si sviluppò il movimento separatista, che tenne agitata la vita dell’isola per diversi anni, finché si andò spegnendo, anche per l’istituzione, con il Decreto regio 15 maggio 1946, della Regione Siciliana, che concedeva l’autonomia speciale. Dopo la fallita indipendenza e il compromesso autonomista raggiunto con la nuova Repubblica Italiana, l’indipendentismo siciliano andò sempre più scemando e i consensi elettorali nei confronti dei partiti separatisti furono sempre più bassi. Nell’aprile del 1947 veniva eletto il primo parlamento siciliano, che il 30 maggio eleggeva il primo governo regionale. Alle elezioni del 1947, per l’Assemblea regionale siciliana, il MIS ottenne dieci deputati e scomparve già alle elezioni del 1951. Molti “capibastone” che il fascismo aveva mandato al confino come mafiosi, erano stati messi dopo il luglio 1943 al comando dei paesi dalle truppe alleate e si infiltrarono nei ricostituiti partiti italiani.

Lo statuto speciale siciliano, emanato da Re Umberto II, il15 maggio 1946, (quindi precedente alla Costituzione della Repubblica Italiana, che lo ha recepito con la legge costituzionale n. 2 del 1948, creò la Regione Siciliana, prima ancora della nascita della Repubblica Italiana. L’Autonomismo fu un modo per svuotare il movimento separatista, guidato dal Movimento Indipendentista Siciliano, che all’indomani dello sbarco alleato era uscito dalla clandestinità in cui era stato sotto il periodo fascista, chiedendo l’affrancamento della Sicilia dallo Stato Italiano, e che ebbe anche un’organizzazione paramilitare, l’E.V.I.S. (Esercito Volontario per l’Indipendenza Siciliana) guidato da Antonio Canepa.
Svanì quasi subito invece l’idea che la Sicilia divenisse uno stato federato agli Stati Uniti d’America. Quando gli Stati Uniti riuscirono a bloccare la minaccia di Mosca e di Tito sul Nord-Est dell’Italia, questi abbandonarono a se stessi l’E.V.I.S e il M.I.S. Non restò altro che partecipare alle elezioni al primo Parlamento regionale nel 1947, e alle politiche, nel 1948, per il Parlamento Nazionale, dove ottenne alcuni seggi, Andrea Finocchiaro Aprile, Attilio Castrogiovanni. Il primo governo regionale del 1947 fu formato con un monocolore DC, con il sostegno esterno dei Monarchici e dei liberali. Ben presto la speranza autonomista di uno sviluppo delle condizioni economiche dell’isola, portata avanti da presidenti della Regione come Giuseppe Alessi e Franco Restivo si rivelano illusorie. La storia politica di sessant’anni di autonomia speciale in Sicilia, e dei suoi governi, ha vissuto momenti di vivacità, che hanno portato a definire la politica siciliana, una sorta di “Laboratorio politico”, e altri più bui. Il 30 ottobre 1958 quando Silvio Milazzo DC venne eletto presidente della Regione Siciliana con i voti, all’Assemblea regionale siciliana, dei partiti di destra e di sinistra, contro il candidato ufficiale del suo partito. Nel suo primo governo ci furono insieme esponenti del PCI e del MSI, “in nome dei superiori interessi dei siciliani”, dissero il segretario regionale del PCI Emanuele Macaluso e il capogruppo all’Ars del Msi Dino Grammatico. Silvio Milazzo, fu subito espulso dalla DC, diede poi vita con un gruppo di deputati regionali a un nuovo partito politico,Unione Siciliana Cristiano Sociale, che ottenne 10 deputati all’Ars nelle elezioni regionali del 1959. Milazzo il 12 agosto 1959 formò un secondo governo, dove però non entrò più il MSI. Grammatico nelle sue memorie definì quella prima fase del milazzismo come una “Rivolta siciliana”, che non avrebbe più avuto nella seconda fase. Questo secondo governo ebbe allora un sostegno variegato, dalle sinistre, ai monarchici, ai vertici di Sicindustria, allora guidata da Domenico La Cavera, faccendieri come Vito Guarrasi Graziano Verzotto, fino a esponenti vicini alla mafia. Ideologi in quella fase furono Ludovico Corrao e il deputato nazionale Francesco Pignatone. L’esperimento di Milazzo, dopo un altro breve governo, entrò in crisi nel febbraio 1960, quando un suo esponente, Benedetto Majorana della Nicchiara, fu convinto dai maggiorenti DC ad accettare la carica di presidente della Regione, al posto di >Milazzo. Crisi dovuta anche a uno scandalo, con un tentativo di corruzione denunciato da un deputato DC, cui furono promessi 100 milioni per votare a favore del governo. Gli anni ’60 sono contraddistinti dai governi di centro sinistra e dalla nascita della “Regione imprenditrice”. Si trattò di una fase politica che pone al centro di tutto l’intero apparato dei partiti di allora, chiamato a gestire discutibili iniziative industriali. Con la nascita della Sofis, la prima società finanziaria pubblica costituita in Italia, nata proprio negli anni del milazzismo, la Regione acquisiva quote ed azioni di società nate già fuori da logiche di mercato. Si trattava, in particolare, di aziende in difficoltà economiche e spesso sorgevano imprese solo per usufruire dei finanziamenti erogati dalla Sofis. Intorno alla metà degli anni ’60, e quindi nell’epoca del centrosinistra, vengono istituiti quattro enti economici regionali: l’Ente siciliano per la promozione industriale, l’Azasi e l’Ente Sviluppo Agricolo. Tra gli anni 60 e ’70 avvenne una delle più grandi speculazioni edilizie della storia siciliana, il cosiddetto sacco di Palermo. Durante tale periodo alcune borgate vennero inglobate da un’espansione edilizia dissennata e abnorme, spesso promossa dalle collusioni tra mafia e politica (ne sono un chiaro esempio, le relazioni tra il sindaco di allora Salvo Lima e l’assessore ai lavori pubblici Vito Ciancimino, entrambi democristiani, e l’emergente mafia corleonese) e furono letteralmente distrutti numerosi reperti artistici e architettonici di grande interesse. Interessi politico-mafiosi che portarono a decine di omicidi eccellenti, come quello dell’allora presidente della Regione Piersanti Mattarella, nel gennaio 1980. Ma l’autonomia ebbe anche aspetti positivi: nel 1992 l’Ars approva, prima del parlamento italiano, la legge per l’elezione diretta di sindaci e presidenti della provincia. I governi di centro sinistra si succederanno per un trentennio, tra alterne vicende, fino alla tangentopoli siciliana, che vedrà negli anni 1992-1995 inquisiti oltre la metà dei 90 deputati dell’Assemblea regionale siciliana, compresi il presidente della Regione, il DC Rino Nicolosi, e quello dell’Ars Paolo Piccione del PSI (che anni dopo verrà prosciolto). Fino al 1996, quando viene eletto il primo presidente di una coalizione di centrodestra, Giuseppe Provenzano, ma nel 1998 con un ribaltone diventa presidente Angelo Capodicasa, primo ex PCI alla guida della Regione. Nel 2001 la prima elezione diretta del presidente della Regione, che vedrà il CDU Salvatore Cuffaro, superare l’ex sindaco di Palermo Leoluca Orlando. Nel 2006 Cuffaro, passato all’UDC, sebbene rinviato a giudizio per favoreggiamento, viene rieletto, superando Rita Borsellino. Nel gennaio 2008 dovrà dimettersi per la condanna in primo grado a 5 anni. Il presidente del 57º governo della Regione, eletto il 14 aprile 2008 è Raffaele Lombardo, leader di un partito autonomista, l’MPA, che ha sconfitto Anna Finocchiaro del PD.
La storia si ripete…..anche alla luce di questi ultimi tempi.
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