Olimpiadi di Roma 1960: le Olimpiadi che cambiarono il mondo

VENERDÌ 1 LUGLIO 2011

Olimpiadi di Roma 1960:
le Olimpiadi che cambiarono il mondo

Nell’ambito di una serata organizzata dal Rotary Club di Casale Monferrato presso il ristorante Adotto di Terruggia, il delegato regionale di Piemonte – Valle d’Aosta ha relazionato sul tema “Roma 1960: le Olimpiadi che cambiarono il mondo”.
Presenti all’iniziativa, oltre al presidente sella sezione Frigerio-Caligaris di Casale Michele Pezzana, i consiglieri nazionali Unvs Giampiero Carretto e-Gianfranco Guazzone, i dirigenti sportivi locali Giuseppe Manfredi (Coni di Casale), Pieraugusto Mesturini (Federazione Pallacanestro), Massimo Barbano (Associazione Casalese Atleti Azzurri ed Olimpici), l’assessore allo sport del comune di Casale Federico Riboldi e ben tre campioni olimpici, ovvero Maurizio Randazzo (medaglia d’oro nella spada a squadre Olimpiadi di Atlanta 1996 e Sidney 2000 e campione mondiale nel 1989,1990 e 1993), Mario Armano (medaglia d’oro nel bob a quattro con Eugenio Monti alle Olimpiadi di Grenoble del 1968 e campione mondiale nello stesso anno, quindi mondiale nel 1970 a Cervinia bob a quattro con De Zordo a Saint Moritz, bob a due nel 1971 a Cervinia ed europeo nel 1969 a Cortina con Gaspari) e Cosimo Pinto campione olimpico di boxe categoria mediomassimi a Tokyo 1964.

» ANDREA DESANA

Non a caso furono definite “Le Olim­piadi che cambiarono il mondo” quelle della diciassettesima edizione romana del 1960, le uniche per ora nella storia del nostro Paese, che tutti gli sportivi italiani auspicano possano ripetersi con il successo di allora nel prossimo 2020. Rappresentarono per una svariatissima serie di motivi un evento unico, gran­dioso ed irripetibile con un Ciò (Co­mitato Olimpico Internazionale) a rappresentare nella realtà dei fatti, non soltanto sportivi ma soprattutto politici, la più grande multinazionale del mon­do.

L’accensione del braciere olimpico da parte di Giancarlo Peris

Un anno, il 1960, in piena Guerra Fred­da, che era iniziato in modo a dir poco tragico per il mondo dello sport e non solo: infatti, alle ore 8.45 del 2 gennaio si spegneva a quarant’anni e quattro mesi di età Fausto Coppi, il Campionissimo, colui che, al di là degli eccezionali record e risultati sportivi, a pari merito con il grande Gino Bartali, aveva diviso in due l’Italia, quella di tutti i cittadini e non la versione molto più limitata delle tifoserie. I due grandi uo­mini avevano infatti realizzato nel Pae­se un bipartitismo perfetto, stranamente basato su quello che si potrebbe definire un rovesciamento delle immagini: Cop­pi etichettato (probabilmente a torto) di sinistra soprattutto per il fatto molto conosciuto ed irriverente della dama bianca, in realtà timido, introverso che si nutriva a carni bianche ed acqua, e Bartali di destra (sicuramente era molto di centro e religioso) invece molto chiassoso ed estroverso nonché forte estimatore delle carni rosse e del buon vino. Un aspetto assolutamente degno di particolare sottolineatura di carattere sociologico, come ha affermato il gran­de giornalista sportivo Gian Paolo Ormezzano soprattutto in raffronto stri­dente con i ripetuti pessimi comportamenti delle tifoserie organizzate dei giorni nostri, fu rappresentato dal fatto che mai in quindici anni di competi­zioni su tutte le strade d’Italia si dovette registrare neppure uno schiaffo tra esponenti delle due diverse e nutritissime fazioni.
Nell’agosto dello stesso anno, esatta­mente il giorno 25, nella città eterna ci fu la cerimonia di apertura della diciassettesima edizione delle Olimpiadi dell’era moderna, quattro anni dopo quelle australiane di Melbourne. Furono sicuramente Giochi Olimpici nei quali si contraddistinsero atleti che divennero veri e propri miti della storia dello sport, ma soprattutto fu un’edizione che sa­rebbe stata contrassegnata da una serie di avvenimenti politici e sociali assolutamente primari ed unici. Il presidente del Comitato Olimpico Internazionale Avery Brundage, infatti, con il suo en­tourage di nobili potenti e tutt’altro che decaduti, ha rappresentato negli anni Cinquanta e Sessanta, nell’epoca di Kruscev, di Eisenower e poi Kennedy e di Papa Giovanni XXIII, uno degli uomini più potenti ed influenti del mon­do, mentre in Italia il Presidente della Repubblica era Giovanni Gronchi e presidente del Comitato Organizzatore dei Giochi il promettente Giulio Andreotti. Tra i dati storico-politici di primaria grandezza di Roma 60 deve essere annoverata la partecipazione per la prima volta sotto una unica bandiera delle due Germanie, sino ad allora denominate Germania Federale e Germania del­l’Est, siglata Ddr (inno nazionale una sonata di Beethoven), pur dovendo ricordare che non più di un anno dopo sarebbe stato eretto a Berlino il fatidico Muro; ma soprattutto si doveva regi­strare a Roma la prima nettissima vit­toria nella storia delle Olimpiadi moderne dell’Unione Sovietica sugli Stati Uniti con 43 medaglie d’oro (15 medaglie su un totale di 16 nella ginnastica femminile!!) contro soltanto le 34 degli statunitensi, 103 medaglie in totale con­tro le 71 degli americani (terza assoluta l’Italia con 36 medaglie di cui 13 d’oro, 10 d’argento e 13 di bronzo), da cui la grande diatriba per la difesa ad oltranza del dilettantismo puro dall’avvento or­mai alle porte del professionismo anche a livello di sport olimpico, sia quello commerciale americano e quello di stato praticato dai Paesi dell’Est.
In merito famose sono rimaste le rinunce ad interpretare il personaggio di Spartacus nel film omonimo per non essere accusato di professionismo e quindi squalificato da parte della me­daglia d’oro nel decathlon Rafer Joh­nson e la precedente squalifica del­l’ostacolista Lee Calhoun per essersi fatto sponsorizzare il proprio matrimonio attraverso una trasmissione televi­siva. Tra le due superpotenze anche sportive non sono mancati durante lo svolgimento della diciassettesima edi­zione dei Giochi casi di vero e proprio spionaggio, come quelli di Dave Sime (secondo nei 100 metri piani a 30 centimetri da Harmin Hary) quasi assoldato dalla Cia per attirare negli States il campione sovietico di salto in lungo Igor Ter Ovaneshian (che fu poi me­daglia di bronzo della specialità dopo Boston e Robertson) ed, al contrario, nella categoria dei massimi del sollevamento pesi, il caso di Yuri Vlasov. medaglia d’oro sovietica, che riuscì a far poi andare a Mosca lo statunitense James Bradford, medaglia d’argento. Epocale fu poi la partecipazione, in rappresentanza della Cina, di Taiwan ma sotto la denominazione portoghese di Formosa in assenza della Repubblica Popolare Cinese, che sarebbe poi rien­trata nell’agone olimpico soltanto nel 1980 (ma c’era Cuba che riuscì a piazzare Figuerola al quarto posto nei 200 metripiani).

Fiaccola Olimpica

Mentre in quell’anno storico, denomi­nato anche l’anno della decolonizza­zione, ben 16 Paesi africani ottennero l’indipendenza, dal 17 aprile del Togo. poi Madagascar, Congo Belga poi Zai­re, Somalia, Benin, Niger, Alto Volta attuale Burkina Faso ovvero “Patria degli uomini veri”, Costa d’Avorio. Ciad, Repubblica Centro Africana. Congo, Gabon, Senegal, Mali, Nigeria per chiudere il 28 novembre con la Mauritania. Ma fu anche la prima volta della partecipazione olimpica di molti Stati come l’Iraq (21 atleti), il Libano (18 atleti), l’Afganistan (13 atleti), il Vietnam e la Corea (3 atleti), tanto da far scrivere che “è come si fossero suc­cedute, una dietro l’altra, improvvise ventate della storia”, insegnando le Olimpiadi romane, oltre la storia, anche la geografia del mondo. Non a caso quindi fu a Roma che l’Africa vinse la sua prima medaglia d’oro della sua sto­ria e che medaglia, quella della mara­tona, con il fino ad allora sconosciuto poi mitico etiope Abebe Bikila che, scalzo perché non in possesso di scarpe adeguate, stravinse la corsa di Filippide, infrangendo le strategie ed i ritmi di Zatopek, soggetto in primo piano in una scenario straordinario quali furono l’Arco di Costantino ed i Fori Imperiali coreograficamente ripresi di sera in di­retta mondiale, il tutto illuminato dalle telecamere mobili della Rai, prima vol­ta al mondo anche per questo fondamentale aspetto di comunicazione. Fu un grandioso successo mondiale di marketing turistico, unico ed irripetibile per Roma e per un’Italia in piena ripresa economica e sociale.

Abebe Bikila sul traguardo della
maratona olimpica a Roma nel 1960

Ma, si disse allora, l’Italia con il suo esercito ven­ticinque anni prima non riuscì a conquistare l’Etiopia mentre un uomo solo, Abebe Bikila, che significa “fiore che cresce”, è riuscito a conquistare Roma (annotazione storica: l’obelisco di Axum, sottratto all’Etiopia, punto di riferimento di Bikila per sferrare il suo scatto vittorioso, è stato poi riportato ad Addis Abeba in data assai recente ovvero nell’anno 2007). La diciassettesima Olimpiade romana fu anche la prima volta delle donne del fondo, più propriamente del mezzofondo, poiché prima di allora non erano mai stati corsi ufficialmente gli 800 metri piani: anche i soloni del Ciò infatti affermavano che era sconveniente ve­dere una atleta molto affa­ticata a causa dello sforzo della corsa sulle lunghe distanze. Le donne, presenti a Roma con ben 961 atlete su un totale di 5.400 partecipa­zioni, da allora potremmo dire hanno fatto molta strada arrivando successivamente a suscitare grande interesse anche nella maratona. E poi un’altra prima volta, questa estremamente negativa: quella di un caso accertato di doping in una gara olimpica e precisa­mente per una morte per doping durante una competizione olimpica. Accadde che nella 100 chilometri a squadre di ciclismo, mentre la compa­gine italiana andava a cogliere un oro importantissimo e meritatissimo, il da­nese Knut Enmark Jensen sotto il sole romano, additato in un primo momento come la causa determinante, si accasciava a terra per non più riprendersi. Dopo si seppe che aveva ingerito una dose da cavallo di stimolanti. Ed infine gli atleti, i miti che sono ri­masti intatti nello svolgersi della storia dello sport, interpreti fondamentali del­lo sviluppo delle discipline sportive co­me affermazione non solo umana ma anche sociale e dei popoli: basti pensare che dopo Abebe Bikila l’Africa è stata in grado di produrre negli anni successivi atleti del calibro di Wolde, Rono, Korir, Gebresilasie, Ngugi, solo per citare i grandi del fondo; il già citato Rafer Johnson, non solo vincitore del decathlon davanti al suo grande amico e compagno di college il formosano Jang, ma soprattutto primo orgoglioso por­tabandiera nero della storia olimpica statunitense e poi bodyguard di Robert Kennedy che riuscì per primo a bloc­care dopo l’omicidio del presidente il suo assassino Shiran Shiran; quindi la Gazzella Nera, ovvero Wilma Rodolph, vincitrice di 100 e 200 piani e della staffetta 4×100 con le altre Tigerbelles, un simbolo per le donne soprattutto nere che per la prima volta a Clarksville, la sua città dove nacque 20a di 22 figli, si poterono incontrare pubblicamente con i bianchi; e ancora il tedesco Harmin Hary, primo uomo a far fermare i cronometri sul tempo, allora da fantascienza, di 10 netti sui cento metri piani, medaglia d’oro sulla distanza ma personaggio antipatico e discusso (nel 1980 ebbe tre anni di galera per truffa), certamente uno dei primi ad essere sponsorizzato da aziende commerciali, nel suo caso da Puma e Adidas, ed an­che su questo tema le Olimpiadi di Ro­ma segnarono un primato: furono sicuramente gli ultimi Giochi all’insegna e sotto la bandiera del dilettantismo originario. E il grande, o meglio il più grande, il labbro di Luisville, Cassius Marcellus Clay, come lui diceva il suo nome da schiavo, poi Muhammad Ali, nome da uomo libero, medaglia d’oro a Roma nella categoria dei pesi mediomassimi (il suo successore a Tokyo fu il nostro Cosimo Pinto, nostro as­sociato nei veterani di Novara). atleta inarrivabile (rimarranno nella storia dello sport i suoi incontri con Joe Frazier e soprattutto il suo capolavoro di Kinshasa dove sconfisse per ko all’ot­tava ripresa George Foreman. in quel momento ritenuto imbattibile), ma an­che grande uomo politico nel senso più puro del termine per quello che è riu­scito a fare ed ancora fa nonostante il Parkinson per i popoli neri dell’Africa e per i Musulmani (mitico fu il suo in­contro con Martin Luther King). E poi altri tra gli atleti stranieri: Jolanda Balas. 1,85 nel salto in alto donne con la tec­nica della sforbiciata, lo statunitense Al Oerter, vincitore di quattro Olimpiadi consecutive nel lancio del disco (in gara a Roma anche il mitico Adolfo Consolini, oro nel 1948 nelle Olimpiadi di Londra), Donald Brag, detto Tarzan. oro e recordman nel salto con l’asta, l’ultima volta prima dell’avvento della aste in fiberglass che catapultarono gli uomini oltre i sei metri con il leggen­dario Serghey Bubka. Infine i grandi italiani: i fratelli Raimondo e Piero d’Inzeo, medaglia d’oro e di argento nel percorso ippico (una famosa storica finale tra fratelli fu quel­la di una precedente olimpiade tra Edo­ardo Mangiarotti, nostro portabandiera a Roma, Atleta del Secolo con 19 ori tra Olimpiadi e campionati mondiali e per 39 anni presidente nazionale dei Veterani dello Sport ed ora presidente emerito, con il fratello Mario nella scherma), poi Nino Benvenuti oro nei pesi medi, con gli altri ori del pugilato del peso piuma Musso e del massimo Franco De Piccoli, il ginnasta Franco Menichelli specializzato nel corpo li­bero, tra l’altro fratello del giocatore della Juventus, Fritz Dannerlein nei 200 metri a farfalla, l’oro del Settebello della pallanuoto, Sante Gaiardoni oro nella velocità su pista con Seghetto e Bianchetto (stesso peso, stessa altezza) oro nel tandem; Giusi Leone, terza nei 100 metri piani dietro la Rudolph e la tedesca Ayman.
E per ultimo il simbolo. l’icona di Roma 60, ovvero il grande Livio Berruti, l’Espresso di Torino, co­me veniva definito, un eroe italiano, primo italiano ad entrare in una finale olimpica nelle corse veloci ed a vincerla (suo degno erede fu poi Pietro Mennea da Barletta) con un doppio 20 secondi e 5 decimi in semifinale ed in finale, record del mondo uguagliato, ma soprattutto esempio di classe e di stile come atleta e come uomo. Le colombe bianche che si levarono nel ciclo di Roma mentre Livio concludeva il rettilineo di quella sua fan­tastica cavalcata, abilmente riprese della Rai e entrate nella storia dello sport e non solo grazie al documentario La Grande Olimpiade, per la regia di Romolo Marcellini (per lui una nomina­tion all’Oscar nel 1961), sono state il simbolo di speranza per un mondo che stava sostanzialmente cambiando. L’auspicio è che con la possibile edizione olimpica di Roma 2020 il nostro Paese riesca nuovamente ritrovare lo stesso spirito progettuale e ispirato ai valori di fratellanza universali tipici dell’Olimpiade.
IN PILLOLE
ROMA 1960
Nazioni partecipanti           83
Atleti partecipanti               5.338
Competizioni                     150 in 17 sport
Cerimonia di apertura
25 agosto 1960
Cerimonia di chiusura
11 settembre 1960
Aperti ufficialmente da
Giovanni Gronchi
Giuramento degli atleti
Adolfo Consolini
Ultimo tedoforo
Giancarlo Peris
Stadio Stadio Olimpico di Roma
Giochi precedenti
Melbourne1956
Giochi successivi
Tokyo 1964

MEDAGLIERE NAZIONE
ORO ARGENTO BRONZO
URSS                                  43       29               31
Stati Uniti d’America       34       21               16
Italia                                   13       10               13