SABATO 26 MAGGIO 2012
da “Corriere della Sera” Sabato 26 Maggio 2012
Lutto: Muore a 93 anni il grande Edoardo, imperatore della scherma
Inchino a Mangiarotti l’uomo delle medaglie
L’italiano che ha vinto di più all’Olimpiade
di Flavio Vanetti
“«Se faccio il bravo.,.»
Tempo fa aveva confidato: «Il cardiologo mi ha detto che se faccio il bravo andrò a Londra». Il cuore lo ha tradito”È morto a 93 anni nella sua casa di via Solferino 24 a Milano Edoardo Mangiarottì. n grande schermidore da qualche mese non stava bene e gli è fatale una crisi cardiaca.
«Atleta straordinario che con le sue 13 medaglie olimpiche ha scritto pagine indimenticabili della storia dello sport italiano. I successi del maestro Mangiarotti costituiscono ancora un esempio per tante generazioni di giovani atleti e per tutto il mondo dello sport», le parole del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. Con le sue 13 medaglie, 6 ori, 5 argenti e 2 bronzi, Mangiarotti è l’italiano più medagliaio nella storia olimpica. Figlio d’arte cresciuto alla scuola del padre Giuseppe, Edoardo ha condiviso la passione per la scherma con i fratèlli Mario e Dario. Anche la figlia Carola ha tirato di scherma. Da ieri pomeriggio la camera ardente nell’abitazione di via Solferino, i funerali previsti per lunedì alle 14-45 ne”a chiesa di San Marco a Milano.
L’imbattibile Signore delle Lame che è appena sceso dalla pedana della vita rischia adesso di essere sconfitto da un avversario che non meriterebbe nemmeno di piazzare una stoccata: è la retorica, costruita sulle frasi fatte. Se n’è andato, a 93 anni, Edoardo Mangiarotti: come non pensare al più grande di sempre della scherma, ma anche all’atleta che ha vinto più medaglie di tutti nella storia di cinque edizioni dei Giochi olimpici, sei d’oro, cinque d’argento e due di bronzo? Ecco, questo smisurato e impareggiabile palmares (nel quale spiccano pure tredici titoli iridati, sette italiani e un’infinità di podi), se da un lato è un tributo inevitabile e doveroso allo sportivo, dall’altro è lo spartiacque che conduce a un ricordo troppo asettico e scontato.
La prima sensazione che si può avvertire, ora che Edo non c’è più, è che ci ha lasciato un nonno, un poter familias capace di traghettare fino al terzo millennio la sua epoca di schermidore così lontana, essendo la disciplina che lo stregò, e nella quale eccelse, molto differente da come è oggi. La scuola inventata dal padre Giuseppe — il Circolo della Spada Mangiarotti — e tenuta in piedi nei decenni dai figli (tre in totale: gii altri sono Mario, il minore, e Dario, il maggiore, mancato nel 2010) ha formato, forma e formerà potenziali grandi talenti, ma anche ragazzi che desiderano semplicemente dedicarsi alla sana attività fisica: questa continuità di una grande tradizione è qualcosa di simile alla traccia che un saggio familiare lascia agli eredi in qualsiasi campo, a cominciare ad esempio dall’imprenditoria.
Ma di Edoardo Mangiarotti piace anche rammentare l’abbondante aneddotica. Era un personaggio pacato, un affabulatore che illuminava con storie che avrebbero potuto tranquillamente essere romanzate o trasferite in uno sceneggiato televisivo; Era affascinante sentirlo parlare della vittoria più bella («Non arrivò in una sala di scherma, ma in un vigneto durante una vendemmia: fu. il giorno nel quale conobbi colei che sarebbe diventata mia moglie»), oppure di quei duelli (veri) mancati per poco: «Quando i! Coni ripristinò le medaglie al valore atletico, Aldo Nadi, fratello di Nedo, la ottenne con la semplice dizione “schermidore che vinse…”, mentre io fui gratificato come “eccelso schermidore”. Aldo chiese soddisfazione alle Antille olandesi, mediante pistola: gli scrissi che non ero bravo nel tiro al piccione… Peraltro, fu a Milano che rischiai davvero di battermi: mi scontrai in auto con un tipo che, sceso dalla vettura, non ne voleva sapere di accettare le scuse. Mi diede il biglietto da visita, segnale della sfida. Io gli porsi il mio ed entrambi risalimmo in macchina. Dopo pochi metri, pum!, ero di nuovo addosso a lui, che aveva frenato di colpo perché aveva capito chi fossi. Era diventato un agnellino: “Sai, sono allievo di tuo padre..”Il duello — si fa per dire — si tenne non in un prato all’alba e con i padrini, ma negli splendidi locali della Società del Giardino».
Poi c’erano il Mangiarotti innamorato anche degli altri sport («Sono milanista, guardo la F1 in tv e ho ancora un piccolo motoscafo, avendo praticato la motonautica; con la boxe, invece, è andata male, pur amandola: le prendevo dai miei .fratelli»), il signore ormai attempato che non mancava di tornare ai giorni in cui era bambino («Papa, figura chiave dell’educazione mia, di Dario e di Mario, per temprare il carattere ci costringeva ad andare a piedi da Milano alla casa che avevamo in Brianza…») o l’agonista capace immancabilmente di infervorarsi rammentando una sconfitta in un teatro milanese: «Fui battuto da una sporca camorra e da giudici venduti».
L’avversario era Dario; i! presidente di giuria era il padre…
Era pure arbitro, Edoardo Mangiarotti («Mi definisco un direttore di gara conciliante. Una volta ai campionati universitari tolsi una stoccata a un italiano, previo consulto con i giudici di mano: quello sbraitava in francese — la lingua ufficiale della scherma, ndr — e io lo calmai dicendogli ‘se te voeuret fagh?’, che in dialetto milanese significa che cosa vuoi farci?), ma soprattutto era un giornalista pubblicista che collaborava con la Gazzetta dello Sport. Ebbe l’occasione, ai Giochi 1952 di Helsinki, di tirare, di vincere e di raccontare.
Ecco la sua testimonianza, narrata il giorno in cui compì 90 anni: «Avevo già scritto… di me stesso dopo l’oro a squadre nella spada. Il giorno successivo, il 27 luglio, celebrai invece il trionfo della fiorettista Irene Camber: l’articolo uscì ovviamente il 28, una data che sarebbe stata magica per me e per la mia famiglia perché io vinsi pure l’oro individuale della spada e Dario fu d’argento. Terminata la competizione, avrei dovuto calarmi nei panni del giornalista. Ma la premiazione era prevista fuori città, per cui persi tempo. Tornai al centro stampa in taxi e fui accolto dalla sgridata di Gianni Brera e Gualtiero Zanetti: “Sei il solito ritardatario: adesso scrivi!”. Poi uno dei due mi chiese: “Ma chi ha vinto?” Risposi: “Io…”. Fui perdonato per il ritardo…».
Impostato come fiorettista, all’età di dieci anni il padre lo fece diventare mancino e lo trasformò in spadista. Mangiarotti si scoprì ambidestro e questo dettaglio gli diede un formidabile vantaggio: una volta si ruppe il tendine della mano sinistra, ma poté gareggiare ugualmente con la destra, lasciando allibiti avversario e arbitro.
Purista convinto, il grande Edo aveva caldeggiato il ritorno (poi avvenuto) del fioretto alle caratteristiche originarie: «Vedo troppi assalti che diventano di sciabola e questo non va bene: il fioretto deve continuare a essere l’arma che colpisce di punta». Aveva gioito per la vittoria olimpica dello spadista Tagliariol a Pechino, ma considerava la Vezzali l’unica erede: «Però desidero ricordarle che io ho vinto più Mondiali di lei… Scherzi a parte, è una fuoriclasse».
Purtroppo non potrà assistere al tentativo di «Vale» di eguagliare i suoi sei ori olimpici. Il cardiologo mi ha detto che se faccio il bravo riesco ad andare ai Giochi di Londra», raccontava. Il bravo probabilmente l’ha fatto, ma alla natura non si comanda. La tristezza del momento e dell’occasione svanita va però combattuta lanciando uno sguardo al mito: sopravviverà all’uomo e se è vero che dichiararlo è retorica, bene, in questo caso non vediamo alternative.
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