LETTERA APERTA DI RISPOSTA ALL’AMICO MARTINO DI SIMO E, PER COINVOLGIMANTO, A TUTTI I VETERANI DELLA NOSTRA UNVS

GIOVEDÌ 6 OTTOBRE 2011

LETTERA APERTA DI RISPOSTA ALL’AMICO MARTINO DI SIMO E, PER COINVOLGIMANTO, A TUTTI I VETERANI DELLA NOSTRA UNVS

Giovanni Salbaroli

Sono imbarazzato, caro Martino, per l’invito che mi hai rivolto, imbarazzato perché tutte queste capacità non penso proprio di averle!
Ma siamo veterani e abbiamo accet­tato di avere un compito da svolgere… e allora, spero ben chiaro per chi leg­ge, con le capacità di tutti
– e sarebbe bello leggere le proposte di noi vete­rani sia sul sito, sia per mail, sia per Skype, sia per… -proverò a preparare una scheda etica da sottoporre al pros­simo Consiglio Nazionale e voglio pensare che noi due saremo non i pri­mi, ma gli ultimi – anche dopo gli ami­ci che avremo saputo coinvolgere fuori dall’Unvs – firmatari di questo documento.
“Concorrere, competere, tendere in­sieme ad uno stesso fine. Questo vuol dire competizione. Competizione non ha niente a che vedere con quello che intendono certi apologeti nei messaggi, che adesso vanno tanto di moda, che parlano senza sapere quello che dicono. Competizione vuoi dire tendere (petere), (cum) insieme ad un fine: correre insieme per un fine e la gara con­siste nel tentare di correre più veloce­mente possibile per raggiungere prima quel fine comune… “. Partirei dal rapporto sport-scuola, perché si tratta di termini in pratica sinonimi. Sport significa un’attività, appunto, che una persona fa per sport, non costretto, che fa da dilettante nel senso letterale del termine: perché ne trae diletto.
È la cosa più bella del mondo lavorare per diletto. Lavorare da dilettanti, è la cosa più straordinaria del mondo. Magari potessimo farlo tutta la vita! Scuola è un termine sinonimo. Scuola viene da un termine greco che i latini traducevano con otium. Significa de­dicarsi ad attività che non sono obbligate, otium, non nel senso di non fare niente, ma nel senso di dedicarsi ad attività a cui non siamo costretti, da cui non siamo “occupati”. Questo termine mette in evidenza quanto bello sia otium, un’attività libera, non occupata. Questo è scuola. Se la scuola diventa un’occupazione è meglio rinunciare a frequentarla per­ché non servirà a niente. La scuola serve quando la si frequenta, quando si discute con gli insegnanti, quando si discute divertendovi. Sport… allora qui è davvero la quintessenza della nostra attività da uomini liberi. Quando non siamo occupati, quando nessuno ci occupa, quando ci divertiamo in ciò che facciamo. Biso­gna sempre pensare di fare così. Per­mettete che dia questo consiglio. Dobbiamo sempre cercare di fare ciò che ci diverte, mai essere occupati, perché quando si è occupati non si è liberi. È l’attività che devono insegnare nella scuola. Questo bisogna insegnare nella scuola.
Questo devono insegnare gli insegnan­ti, se no tradiscono la loro missione e il loro compito. Quindi devono inse­gnare a fare sport.
Assolutamente sono due termini di di­mensioni analoghe: sport, scuola.>Per­ciò è assolutamente sbagliato ritenere lo sport qualche cosa di assolutamente accessorio e secondario rispetto alla scuola e ritenere, perciò, del tutto erroneamente la scuola un ‘occupazione seria.
Qualcosa in cui è vietato divertirsi. E allora lo sport è relegato ai margini. Non si fa sport perché non si fa scuola. Nessuno fa scuola, perché se si capisse il significato della scuola, automati­camente al centro dell’attività scolastica ci sarebbe lo sport.
Se la scuola capisse questo concetto, lo sport dovrebbe esistere in un rap­porto del tutto armonioso alla scuola, nel vero senso che quel termine signi­fica e che comporta la possibilità di discutere liberamente, da uomini liberi, non occupati.
Dobbiamo sforzarci di farlo capire agli insegnanti. In questo senso i ra­gazzi devono avere un ruolo di discenti e docenti, nei confronti dei loro inse­gnanti. Sport, otium, scuola. Attenzione: nulla di idealistico, nulla di abbracciamoci tutti, paradiso perduto, Eden. Lo sport, e la scuola, sono competizione, sono concorrenza. E’ bella la scuola, è bello lo sport, quando io mi confronto con un altro, quando io m’impegno per emergere, in una gara libera, che ho liberamente scelto, a cui nessuno mi ha costretto, in cui mi diverto, ma mi diverto perché mi confronto, mi diverto perché competo.
Cosa vuoi dire concorrenza?, cosa vuoi dire competizione?, che è certa­mente la quintessenza dello sport in­sieme al divertirsi.
Non c’è sport se non c’è divertimento, come non c’è scuola. Ma è divertimento che è tale perché è anche concorrenza, competizione. Quando si gioca è bello giocare se c’è un, se vo­lete, avversario, su cui devo emergere. Questo è il significato dello sport e della scuola, fin dalla sua origine. Ma cosa vuol dire competizione? Concorrere, competere, tendere insieme ad uno stesso fine.
Questo vuoi dire competizione. Competizione non ha niente a che vedere con quello che intendono certi apolo­geti nei messaggi, che adesso vanno tanto di moda, che parlano senza sa­pere quello che dicono. Competizione vuoi dire tendere (petere), (cum) in­sieme ad un fine: correre insieme per un fine e la gara consiste nel tentare di correre più velocemente possibile per raggiungere prima quel fine co­mune.
Questa è la gara bella, questo è l’agon bello. Tendere insieme ad un fine e sa­pere che quel fine è comune e corrergli incontro il più rapidamente possibile. Per riconoscere, quindi, chi è più bra­vo ad essere arrivato a quel fine, che è comune, correndo assieme, tentando insieme di raggiungerlo il più rapida­mente possibile.
Questo è lo sport, questa è la scuola: competizione, concorrenza, ma con questo significato, che è l’opposto di violenza. Perché dobbiamo parlare un pò anche di questo, perché la violenza non è il correre insieme per raggiungere un fi­ne.
Violenza è: l’avversario che corre con me, il mio agonista è uno che devo sopprimere. Al fine voglio arrivare da solo, non primo, da solo. E l’avversa­no, dunque, è uno che devo tentare di annullare. Questa è la differenza fon­damentale tra una gara – o se volete una competizione – violenta, che nega l’idea, il concetto stesso di competi­zione e sport, scuola, concorrenza e competizione bella. Questa è la diffe­renza.
Laddove nello sport, ma anche nella scuola, subentra un meccanismo in base al quale io sento l’altro non come quello che compete e concorre con me, ma come quello che mi ostacola, che mi è di ostacolo, che mi è nemico nel voler raggiungere quel fine, necessa­riamente tenterò di annullarlo e commetterò violenza nei suoi confronti, per impedire che concorra con me. È da qua tutta la violenza nello sport, dal fraintendimento radicale del si­gnificato di sport, dal fraintendimento radicale del significato di competizione e concorrenza.
La violenza non nasce dalla competi­zione e dalla concorrenza. Qui è l’equivoco di fondo. Nasce dal fraintendimento radicale del significato di competizione e concorrenza, per cui il concorrente diventa il nemico, non quello che mi è necessario per giocare. Che gioco è allora? Il paradosso della violenza consiste nel fatto che si vorrebbe, alla fine, giocare da soli; annullare gli altri, con pasticci, con trucchi, con quello che volete: truccare le carte per non giocare più insieme. Nella competizione e nella concorrenza l’altro, invece, mi è necessario perché io quella gara la faccio, quella gara ha un senso sol­tanto se è cum, insieme all’altro. Concorrenza, competizione. Allora mai nello sport autentico io ricorrerò a nessun mezzo per impedire all’altro di concorrere, oppure per avvantag­giarmi scorrettamente nella competi­zione, nella concorrenza, perché non mi divertirei più.
Quello è il punto: non sarebbe più un divertimento, perché il risultato di quella gara verrebbe falsato. I veri giocatori non barano mai, perché non si divertirebbero più. Sono gli occupati che tendono a ba­rare, cioè quelli che intendono il gioco come una occupazione. Sono gli oc­cupati a barare, cioè quelli che pren­dono il gioco come una occupazione, perché devono sbarcare il lunario af­fannosamente con quel gioco. Ma quel gioco non diventa più un gio­co. Diventa un contrasto violento, nel quale si ricorre a tutti i mezzi per, come idea finale, annullare l’altro, o ren­derlo impotente, o comunque renderlo un non concorrente, per renderlo non competitivo con me. E allora è violenza. Questo è il massimo ostacolo allo sport, fondamentale, perché se no abbiamo dello sport un’idea tutta sentimentale, tutta caramellosa, detestabile per me. Come la scuola. Questa idea che nella scuola non bisogna valutare, non bisogna dare voti, non qualificare, per carità!, tutti insieme, avanti. Caramelle, sentimenti.
La scuola, lo sport, devono essere competizione, devono essere concor­renza. Ma perché? Perché sono un bellissimo gioco, in cui bisogna vedere chi è il più bravo, ma il più bravo veramente, senza nessun trucco, senza nessuna confusione, di nessun genere, con totale onestà. Ma perché questo? Perché il giocatore vero, questo gioco vuole fare; lo sportivo vero così vuole compiere la sua gara. Lo sportivo vero si diverte quando ha dei concorrenti, agguerriti come lui e alla pari di lui. Allora è bello emergere, è bello essere i più bravi.
Quando, appunto, tutto si è svolto con l’assoluto – come si suoi dire – fair-play; cioè:play (gioco), il gioco è bello (fair). Questo vuoi dire. E possibile questo? Da queste idee siamo ormai completamente lontani. Voglio dire: lo sport attuale può an­cora ospitare queste idee? Può ancora essere skolè, competizione, concorrenza, fair-play, gioco onesto? Può esserlo? Oppure determinate regole, determinati meccanismi economici gli impediscono di essere così? È questo il grande ruolo di organiz­zazioni come la nostra Unvs. Io ritengo sia questo, un grandissimo ruolo culturale. Un grandissimo ruolo culturale far comprendere il concetto di scuola e di sport, far comprendere i concetti elementari, fondamentali dello sport. Un grande ruolo di educazione, di ac­culturazione, perché, sia chiaro che se noi dovessimo rispondere negati­vamente alla domanda: “lo sport attuale può essere fair-play, competizio­ne, concorrenza, skolè?”, dovremmo dire che non c’è più lo sport. Il grande sport professionistico è ne­cessariamente estraneo a queste idee? Io non lo credo. Io non lo credo affatto. Se lo pensassimo, dovremmo chiudere baracca e burattini, perché è evidente che, a meno di non essere dei nostal­gici reazionari, è evidente che già lo sport professionistico è magna pars delle attività sportive oggi, anche per i dilettanti puri e semplici. Perché tanti movimenti possono na­scere e svilupparsi oggi ormai grazie anche alle grandi imprese professionistiche. Non c’è dubbio. Se non tifassero i grandi risultati delle imprese professionistiche, da dove arriverebbero tanti soldini anche per lo sport dilettantistico? E poi, che cosa spinge e promuove il dilettante, so­prattutto i giovani, allo sport meglio della grande impresa professionistica? Saremmo degli illusi, saremmo dei pa­rolai, saremmo dei moralisti detestabili se pensassimo di atteggiarci in modo reazionario rispetto al grande sport professionistico.
Ma io vi chiedo: il grande sport pro­fessionistico deve necessariamente es­sere – lo dico in modo provocatorio, tra virgolette, dato quello che ho detto – “violento”?
Per quale motivo? Perché il grande professionista non può continuare ad essere dilettante? Perché il grande professionista non può continuare ad essere colui che ritiene necessaria la competizione e dunque la presenza dell’altro, senza trucchi, senza volontà di annullarlo, senza volontà di sopraffarlo? Perché?
Io non vedo questa necessità, franca­mente. Io vedo la necessità di una grande operazione di acculturazione, di educazione, di informazione, che parta dai giovani, ma non vedo assolutamente la necessità che le regole economiche, che certamente dominano lo sport professionistico oggi, ai più alti livelli, non possano anche conciliarsi con i discorsi che facevo. Certo, occorre controllo attento, occorre au­tocontrollo da parte delle società e degli atleti, una più forte e incisiva azione di associazioni come la nostra con il Progetto Vems, per educare i giovani a questo discorso sullo sport e sulla scuola. Etica: di nuovo, se ci pensiamo un mo­mentino, siamo nella stessa dimensio­ne, giochiamo con gli stessi termini. Etica è una parola che indica un si­gnificato originario molto profondo, molto radicale, che non ha niente a che fare con falsi moralismi. Non è un predicozzo l’etica. Non sono predicozzi i discorsi etici. Etica è una domanda che sentiamo, che ognuno di noi dovrebbe rivolgersi e che, come vedrete, si lega perfettamente a quanto detto finora.
Se riteniamo che tutto si riduca nel gestire la nostra proprietà e difendere la stessa, è ridicolo parlare di etica. Etica significa che, invece, noi rite­niamo essenziale una dimensione che non è di nessuno.
Ci riconosciamo tutti come la nostra comune coabitazione, come la nostra comune casa, come la nostra comune fede, di cui nessuno è proprietario, ma che tutti insieme dobbiamo acquisire, che tutti insieme dobbiamo curare, per la quale tutti insieme dobbiamo anche, se necessario, sacrificarci, rinunciando in qualche caso anche alla ferrea ed egoistica tutela della nostra proprietà? Se rispondiamo positivamente a questa domanda e allora cerchiamo questa fede comune, ebbene, questa è etica. Etica è ricerca. Ricerca comune di questa fede comune, proprietà di nes­suno. Questa è etica. E dove vediamo meglio questa possi­bile etica se non nello sport, di nuovo, così come ho cercato di spiegarlo? Vi sono i diversi atleti che competono, i diversi atleti che hanno in proprietà le loro cose, le loro risorse, la loro vo­lontà, ma formano un qualcosa di co­mune, che non è proprietà di nessuno: la gara, la bellezza della gara. E quando lo sport diventa veramente grande sport, quando alla televisione o dal vivo vedete certe grandi gare ciclistiche e vedete quanto sia dura la competizione, la concorrenza; quando si va su per quelle montagne, quanto è dura la sofferenza e la co-sofferenza, proprio cum-patìre, vedete anche però che c’è qualcosa di più. Non ci sono solo i singoli atleti, che soffrono, che competono, che concor­rono. C’è qualcosa di molto di più. Si forma veramente, se voi vedete quegli atleti e ne avete una visione d’insieme, si forma veramente un ethos. Si vede chiaramente che hanno qual­cosa di comune, che non è proprietà di nessuno di loro, che tutti parteci­pano alla gara, che non è di nessuno. Che non è di nessuno. Ci sono momenti nello sport in cui questi discorsi sull’ethos come ricerca, come ricerca continua, non come elencazione di morti comandamenti, noiosi, che non dicono più nulla: l’etica detta in questi termini normativi è un ‘etica che non parla più a nessuno, che non parla più ai giovani, che an­noia e basta. Giustamente. Ma l’etica come continua ricerca della dimensione comune, della gara comu­ne, e tutti sentirsi partecipi di questa gara, e tutti sentire l’altro partecipe, (sentire) l’altro concorrente necessario per la conquista di questa cosa comu­ne, che è la gara. Questo è etica.
Questa è etica. E di nuovo nei grandi momenti dello sport il significato viene fuori, emerge, come viene fuori ed emerge quello di skolè e di scuola. Io vorrei proprio che la Unvs con il Progetto Vems riuscisse a comunicare tutto questo, perché se riuscissimo a comunicare tutto questo, a partire dal­la scuola, vedrete che non ci sarà professionismo che tenga, non ci sarà business che tenga.
Vi sarà il business, vi sarà il profes­sionismo, ed è bene che ci sia, ma ci sarà un professionismo ed un business che esprimeranno questa etica.
Ciao Martino e sempre buona Unvs.

Ravenna, 6 ottobre 2011