MERCOLEDÌ 30 GIUGNO 2010
Gli ultimi 20 metri
di Nino Costantino
Correvano gli Anni Sessanta sul finire con gli Anni Settanta ed all’epoca ricordo che correvo anch’io e correvo anche forte, ma quel che più ricordo è il fortissimo contrasto tra il lento trascorrere degli anni e la velocità dei miei muscoli, allenati tutti i giorni sulla pista dell’ex Comunale, oggi Stadio O. Granillo o al Campo Scuola di Modena.
Le giornate erano scandite dal lento fluire delle ore tra la lettura e traduzione dei lirici greci ed i frammenti appena tradotti che mi frullavano in testa mentre correvo, sudavo e volevo correre sempre più forte per arrivare sempre e comunque al traguardo, fossero i 100, i 1.000 metri, la staffetta 4×4 o la corsa campestre nella quale spesso mi cimentavo perché era la competizione che più mi dava il senso eutimico dell’ambiente in cui mi trovavo, con addosso il peso di una fatica appagante, colorata dal fango del percorso misto al sudore ed alla pioggia battente sul viso, durante il periodo invernale. Erano gli anni degli studi liceali e di pensieri in testa me ne frullavano tanti, fossero i turbamenti del cuore o dell’anima, gli ideali politici, la presa di coscienza sociale, le scalpitanti speranze, le attese, le trepidazioni o le delusioni tipiche di quell’età, trovavano tutti nel mio carattere, che pian piano cominciava a foggiarsi, il loro comune denominatore. Analizzando i frammenti dei lirici greci, appena tradotti, uno in particolare mi frullava sempre in testa, fossi in allenamento o in gara: “con lo scudo o sullo scudo”, ma cosa mi importa diceva il poeta se perderò lo scudo in battaglia, appena tornato a casa me ne farò foggiare uno nuovo e più bello. Ma era giusto, era proprio così, si poteva tornare senza scudo e poi farsene foggiare uno nuovo? Certamente no. Già “con lo scudo o sullo scudo” ed il suo simbolismo. L’aforisma è arcinoto: era la regina Gorgo a pronunciarlo, era il motto che le donne spartane rivolgevano a figli e mariti alla vigilia di ogni guerra, era un invito perentorio a ritornare vincitori (con lo scudo) o in alternativa, morti di morte eroica, l’hoplon infatti aveva caratteristiche tali da potere essere utilizzato per il trasporto di un guerriero morto; tornare vivi senza scudo non era concesso (tertium non datur). Nella tattica dell’antica falange lo scudo non solo concorreva a proteggere colui che lo portava, ma anche il compagno alla sua sinistra, sicché il suo possesso faceva sì che la protezione del fianco destro di ciascun soldato dipendeva dall’uomo che si trovava alla sua destra tanto da rappresentare il simbolo perfetto dell’ideale di lealtà e di amicizia ; l’hoplite non cercava tanto di vedere o udire gli amici che aveva a fianco, quanto di sentirli. Correvano spesso al mio fianco ragazzi dalle doti eccezionali con i quali condividevo tutto quel che madre natura ci aveva regalato: forza fisica, reattività, temperamento, destrezza, abilità, amicizia, lealtà e coraggio, doti certamente innate in ognuno di noi (ci sono o non ci sono ed in noi c’erano), ma che l’allenamento quotidiano, il sacrificio assieme alla gioia di farlo, l’applicazione, la costanza, l’abnegazione nel rispetto delle regole, ci aiutavano ad affinare, migliorare e rafforzare, foggiando il nostro carattere per quel che era il nostro presente, ma soprattutto per quel che sarebbe stato il nostro futuro. Eravamo la stessa sostanza di cui erano fatti i nostri sogni. Dentro lo zaino, spesso, assieme all’accappatoio, c’erano anche i libri di scuola perché, finito l’allenamento, il pensiero correva subito ai compiti del giorno dopo, al senso del dovere, al rispetto dei ruoli e delle regole ed allora il confronto, la competizione e l’aiuto reciproco dalla pista si trasferivano dentro lo spogliatoio per confrontarci, condividere e completare in modo degno il percorso della nostra giornata. Il giorno delle gare rappresentava lo spaccato della personalità di ognuno di noi, dentro lo spogliatoio si respirava un’aria magica, carica di grandissima intensità: dalla vestizione, prima i pantaloncini o la maglietta e viceversa, il modo di allacciarsi le scarpe, il posto sulla panca, sempre la stessa posizione con a fianco sempre lo stesso compagno gli ammiccamenti e gli sguardi, come a volersi infondere reciproca forza, tutti gesti che fanno parte di una ricca aneddotica, patrimonio universale di tutti gli atleti e dello sport di ogni tempo, fino al momento più importante (il giorno della messa cantata) rappresentato dal training. Per quanto cercassi di pensare ad altro non riuscivo mai a distogliere il mio pensiero dall’importanza che rivestiva nella pianificazione e gestione della gara l’ultima parte del percorso, gli ultimi venti metri, che comunque mi doveva portare al traguardo, primo od ultimo che fossi (con lo scudo o sullo scudo) e ad ogni gara rivivevo sempre le sensazioni della gara precedente: respiro sempre più forte ed ansimante, la vista che si annebbia, il cuore in gola e che batte dentro le orecchie quasi a volere uscire, i pensieri più strani che ti corrono in mente in un senso di estasi che quasi trascende ogni senso di fatica, il filo del traguardo che invece di avvicinarsi ti sembra sempre più lontano, i pensieri più strani che ti corrono in mente. L’esito della gara spesso era condizionato dal tempismo della partenza: quanto più il mio scatto era sincrono con il segnale dello starter tanto migliore era il tempo realizzato nella gara e viceversa in una sorta di chiasma che vedeva le cose in perfetta correlazione tra loro. Non mi perdonavo mai le rare volte che provocavo una falsa partenza perché è vero che da un lato mi consentiva di ripianificare velocemente la gara, ma dall’altra mi dava la sensazione che non ero in perfetto equilibrio psicofisico, indispensabile per la migliore performance ed il buon esito finale. Sono i nostri passi che caratterizzano il nostro percorso e la loro cadenza ne determina il risultato, passi giusti o passi falsi, lenti o veloci, sono sempre scanditi dal segnapassi che è dentro ognuno di noi, nel cuore, nell’anima, nella mente, nel nostro carattere da dove partono gli impulsi che danno senso, quantificano e qualificano tutte le nostre azioni lungo la pista più bella, più importante, dove si perde e si vince, la nostra vita.
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