MERCOLEDÌ 27 APRILE 2011
Giustificazione e valore
Di NINO COSTANTINO
Se avessi dovuto e se dovessi decidere da che parte stare, di primo acchito, sarei stato e starei dalla parte di Aiace, non fosse altro che per la statura, non tanto fisica, che c’è, come aveva predetto Eracle in visita al padre Telamone ed ha dato all’uomo tante opportunità di atti eroici e di fama per dimostrala, ma nello stesso tempo motivo di tutti i suoi guai, quanto piuttosto per quella statura morale, ispirata alla lealtà (combatte con Ettore battendolo ed alla fine del combattimento si scambia doni con l’eroe troiano), spontaneità, quasi naive, con la profonda convinzione che le leggi, frutto di una giustizia intrinseca alle cose e non conseguenza dell’eterna ragion di stato, vanno sempre e comunque rispettate. Egli esce sempre vittorioso da tutti i combattimenti e duelli eccetto uno, la lotta corpo a corpo con l’astuto Ulisse che non diede ne vinti ne vincitori; Aiace è la torre, l’estremo baluardo dell’esercito acheo e questo suo ruolo è indicato dal suo scudo, altissimo e rinforzato da sette pelli di bue. Ma non può prendere Troia: il coraggio non basta. Per vincere il nemico sono necessarie l’intelligenza e l’inganno, più che la virtù (aretè) è l’inganno astuto (metis) che fa vincere le guerre. Dopo la morte di Achille si tenne una grande battaglia per recuperare il corpo dell’eroe: Aiace Telamonio riuscì a distrarre i troiani mentre Ulisse trasportò via la salma. I generali decisero che l’armatura di Achille sarebbe spettata al guerriero più valoroso.
Si fecero dunque avanti Aiace e Ulisse, che avevano recuperato il corpo di Achille. Agamennone, non essendo disposto a fare una scelta così difficile chiese ai prigionieri troiani chi fra i due aveva causato più danni per la loro città. Secondo consiglio di Nestore vennero mandate delle spie all’interno di Troia per sapere cosa commentavano i troiani sulla battaglia avvenuta poco prima e sul valore di coloro che erano riusciti a recuperare il corpo del Pelide. Una giovane disse che fu Aiace il migliore ma un altro, sotto consiglio di Atena, protettrice di Ulisse, diede il voto migliore al favorito. Ma in effetti, secondo Pindaro, la decisione fu presa attraverso una decisione segreta dei principi achei (aneddoto universale nel giudizio delle armi). Comunque sia, in tutte le versioni, le armi vennero date ad Ulisse e Aiace, impazzito per il dolore, decise di uccidere i giudici di gara ma, per colpa di Atena, scambiò i generali per degli armenti che vennero sterminati, scannando nella sua furia due arieti, credendo fossero Agamennone e Menelao. All’alba tornò alla normalità e, accortosi dell’accaduto, si uccise, per il disonore, trafiggendosi con la spada che gli aveva donato Ettore (i doni del nemico non sono doni e non portano fortuna), colpendosi al fianco o all’ascella, ritenuta da alcuni come il suo unico punto debole. Dopo la morte di Ettore e poi di Achille, la guerra di Troia è in stallo: la profezia dice che solo grazie alle armi di Filottete i greci potranno vincere, ma gli Atridi hanno confinato da anni l’eroe nell’isola di Limnos, perché appestava con il fetore della ferita infertagli a un polpaccio da un serpente o forse e, forse, senza forse perché avversario del dispotismo di Agamennone. Ulisse, maestro nelle astuzie e nell’opportunismo politico, organizza un piano per riavere con qualunque mezzo, anche l’inganno e la forza, le armi di Filottete, ormai fattosi un eremita misantropo. Strumento di questa macchinazione dovrà essere proprio il figlio di Achille, Neottòlemo, ragazzo privo di esperienze di vita che non siano quelle dell’esercito nel quale lo hanno cresciuto. Con straordinaria modernità (409 a.C.) Sofocle nel suo Filottete è il primo a mettere in scena la vera e propria formazione dello adolescente. Neottòlemo, inizialmente facile da manipolare nel suo idealismo ingenuo, matura poi fra i poli dei due opposti eroi attraverso l’esperienza e la sofferenza, slanci ed errori che lo fanno approdare ad una consapevolezza morale tanto adulta da potersi addirittura porre alla pari con il vecchio Filottete.
Da diffidente ed antagonista il rapporto fra l’eroe puro ma disilluso e l’adolescente irruente si evolve in comprensione ed in salda amicizia, quasi una paternità putativa che porterà le due generazioni a lasciare le loro solitudini ed a tornare ai rapporti con la comunità ed alla vittoria su basi ben più profonde dell’opportunismo previsto da Ulisse. A parlare è solo l’adolescente, mentre il vecchio sa veramente ascoltarlo (che lezione!). Assieme sapranno superare dialetticamente la necessità di quella maschera che era imposta loro dall’opportunismo dei politici e che avrebbe potuto anche essere segno regale, si, ma funesto. Tutta la nostra vita è improntata a dare un senso alle nostre scelte, al nostro lavoro ed alle nostre decisioni. Perché decidiamo e come e perché facciamo le cose che facciamo in pratica: tutte le nostre scelte e le nostre azioni sono improntate e si realizzano attraverso due modi della ragione: la logica e l’etica e tutta la nostra vita deve rispondere a questi due obbiettivi che sono l’essenza stessa della nostra esistenza e la nostra stessa ragione di esistere. L’etica è la logica dell’agire (ma ogni agire razionale comporta quindi un suo specifico orientamento a valore) e la logica è l’etica del pensare, cioè di quell’agire orientato a valore la cui idea normativa è la verità. Entrambi questi due modi della ragione sono possibili sotto il postulato della libertà e perciò all’uomo è sempre possibile pensare ed agire, anche irrazionalmente, o addirittura a controsenso, ma è altrettanto possibile e doveroso dare un senso compiuto al suo pensiero ed alle sue azioni. Ci sono parole che riassumono l’idea fondamentale e segnano una via nuova del pensiero, che diventa un’eredità da esplorare e da mettere a frutto. Due di queste parole bene rappresentano la nostra stessa natura, la nostra missione ed il nostro cammino. Queste due parole sono giustificazione e valore e da sole esse indicano anche la nuova idea del primato della ragion pratica. La prima parola, giustificazione è la parola chiave ed indica il bisogno individuale e sociale ed è la domanda caratteristica di ogni risveglio critico e di ogni sussulto morale, di ogni alba cognitiva e di ogni interrogazione etica: perché? A favore di chi, con quali benefici, con quale equità? La seconda, valore, è la parola chiave di tutto il pensiero umano ed indica quella dimensione essenziale delle cose reali (del mondo della vita, naturale e sociale, delle persone) che è il loro incarnare qualcuna di una varietà infinita di qualità caratterizzate da due tratti: la polarità (positiva o negativa, Filottete o Ulisse) ed il grado comparativo (maggiore o minore) sancito dalle prove, efficacia appropriatezza, sostenibilità, misurabilità, valutabilità, cioè quel complesso di qualità positive in campo morale, intellettuale, deontologico ed etico per le quali una persona è degna di stima, insomma quel concetto valoriale, universalmente accettato come elemento primordiale di codifica, trascrizione e decodifica del pensiero umano.
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